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Temerario e delicato.
Nell'arte e nella vita.
Quando si cala senza bombole nell'Egeo per scovare una cernia
impermalita a restare per sempre nella sua tana abissale,
e risale, e riscende, risale, solo per far contenti quattro
amici golosi di pesce.
Quando s'inerpica sulle vertiginose torri di trivellazione
del petrolio senza particolari accorgimenti, più per catturare
le misteriose geometrie della materia che per sfidare la situazione
spericolata, eccezionale.
Enzo, Enzo Ragazzini è così, è sempre stato così, con la sua
forza salvifica, protettiva, temperata dalla tenerezza dei
gesti e dalla ineluttabile eleganza dei risultati.
Così dalla sua camera oscura sono uscite, nei decenni, meraviglie
che documentano il suo spirito erratico, avventuroso (ha girato
fotografando tre quarti di mondo), e la sua stanzialità scientifica,
meditativa, che in laboratorio, per purezza e esattezza, lo
ha portato a scoperte formali tanto innovatrici da istituire
una vera e propria svolta nel campo dell'immagine.
È sempre stato così finché...
Finché ha pensato di fotografare l'infotografabile, qualcosa
che ognuno di noi percepisce, sa, qualcosa che ognuno di noi
è, ma che non aveva mai avuto, sembrava non poter avere mai,
una figurazione soggettiva unitaria.
Vale a dire: Enzo Ragazzini ha fotografato la struttura molecolare
dell'eros.
Dell'eros di ognuno di noi.
E per mutare l'impossibile in possibile, ha preso del materiale
pornografico e lo ha violato; ha brutalizzato, attraverso
i procedimenti più vari, l'ottusità di quel codice, l'esplicitissima
semplificazione, la banalità ripetitiva, l'ossessiva invalicabile
noia, per smascherarsi.
E ci ha smascherato.
Davanti alle stupende solarizzazioni, dove ogni forma, ogni
dettaglio palpita (per via della separazione di tono a colori?)
di un proprio orgasmo autonomo che sembra destinato a non
finire più, le guardiamo e ci ritroviamo sgomenti e scandalizzati
dalla potenza del nostro desiderio, qui, ora, in piedi, noi:
così: accartocciati o combusti da quella violenza, da quella
decomposizione, dalla magnificenza di quella morte che fa
tremenda e vivibile la nostra vita.
Ludovica Ripa di Meana
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