...mio amico Rinaldo, pittore, sin da quando, insieme, cinquant'anni
fa, la sera, nei ristoranti o nelle trattorie romane che ci
lasciavano entrare, ci spostavamo da un tavolo all'altro per
domandare se la signora o il signore, che fissavano ostentatamente
il piatto, avrebbero gradito un "very similar profile, or
a frontal face portrait", e in un sussurro aggiungevamo fulmineamente,
"very quickly!".
Qualche volta chiedevano: "E perché in inglese?". E noi,
con un candore da schiaffi, a una sola voce: "Non siete forse
turisti?".
Il falso equivoco funzionava, la diffidenza si scioglieva
in somsetti divertiti e compiaciuti.
Ci guardavano con simpatia e una sfumatura di gratitudine.
Gli occhi si posavano con benevola curiosità sui ritrattini-campione,
che sfogliavo con la destrezza di un prestigiatore.
Tranne Trilussa — noi non sapevamo fosse lui — che fissandoci
attraverso le sue lunghe ciglia, improvviso quasi un sonetto:
«Ma ce fate pe' davero? Ecchè ritrattisti siete si me scambiate
pe' straniero?». Forse il poeta non disse proprio così, anzi,
è sicuro che non disse niente, ma con una mano grande, levigata,
di marmo come quella del Mosè, ci invitò a cambiar tavolo.
A esser sinceri, quello da cacciare ero io, solo io, che pasticciavo
faticosamente legnosi profili caricaturali che non assomigliavano
mai; Rinaldo invece era bravissimo, e se qualche volta, finito
il lavoro ci invitavano a pranzo, il merito era tutto suo.
I ritratti, eseguiti fulmineamente come promesso, riscuotevano
approvazione, consensi, e nell'entusiasmo per quanto era riuscito
a fare in pochi minuti, piovevano ordinazioni, proposte, committenze
per altri ritratti: al papa in divisa, alla nonna con l'abito
della festa, alle gemelline.
Una volta un signore con degli occhiali da sole scurissimi,
che prima di risponderei aveva lentamente mangiato il primo
piatto, il secondo, il contorno e il formaggio, lasciandoci
in piedi come due camerieri disoccupati, si tolse infine gli
occhiali, e indicandosi gli occhi, affetti da uno strabismo
da applausi, domandò con severa dignità se nel ritratto era
possibile ignorare il difetto. "Quale difetto?", chiedevo
io mentre Rinaldo si era già seduto, e con una tavoletta sulle
ginocchia stava schizzando la parte superiore del viso del
signore che adesso, nell'abbozzo, aveva uno sguardo diritto,
penetrante, dolce e pensoso. "Sono un industriale del nord",
disse il signore annuendo ammirato — "desidero veniate entrambi
a Milano. Ho deciso, per Natale, di fare un regalo ai migliori
tra i miei impiegati. Che pensate, come cadeau, di un ritratto
ciascuno?".
A mezzanotte eravamo ancora seduti al suo tavolo, circondati
dai camerieri, dai cuochi, dal padrone e dalla moglie: tutti
a guardare Rinaldo che continuava a riempire i fogli fabriano
della sua cartella con facce e faccette, sguerciandosi a guardare
attraverso una lente fornita dall'industriale, una fotografia
poco più grande di un francobollo che il mecenate aveva pescato
dal suo portafoglio e dove sembra ci fosse tutta la sua famiglia
seduta in giardino sotto l'ombra di un cedro del Libano.
Il fatto che Rinaldo potesse intravvedere, riconoscere, cogliere
un volto, una fisionomia, dei connotati, in quel rettangolino
buio della foto, aveva qualcosa di miracoloso, e l'industriale
con gli occhi lustri, ci abbracciava con gran calore, domandandoci
insistentemente perché non andavamo a Melbourne, paese dove,
secondo lui, l'arte italiana era apprezzata come in nessuna
altra parte del mondo.
Non siamo mai andati in Australia a controllare se era vero,
ma Rinaldo, a Milano ci andò il giorno dopo e fece il ritratto
a tutti gli impiegati di quel signore ... da quel giorno non
si è più fermato: migliala di volti, industriali, porporati,
aristocratici, finanzieri, donne bellissime. Géleng ha fatto
quello che voleva fare, che sa fare, e l'ha fatto per tutta
la vita, e continua a farlo, senza ripensamenti, senza deviazioni,
con assoluta naturalezza, con umiltà e quella modestia artigianale
che appartiene agli artisti identificati in un mestiere che
eseguono senza perdere tempo a farsi domande o a giudicarsi.
L'aver scelto, come pittore, di dedicarsi al ritratto e quindi
ai volti, alle fisionomie, alle espressioni, questa specializzazione
nell'esprimere il suo talento, questa sottotraccia magnetica
che lo ha guidato, è stata anche la coincidenza che da ragazzi
ci ha fatto incontrare e che ha continuato in qualche modo
a farci sentire uniti, quasi nello stesso lavoro, per tutti
questi anni.
L'ossessione dei visi ha in qualche modo, contrassegnato la
carriera di entrambi.
Lui ha seguitato a trasferirla sulle tele del suo cavalletto
ed io su quella dello schermo. Abbiamo passato la vita a scrutare
facce, catalogare i tagli degli occhi, le curve dei sopraccigli,
la discesa delle palpebre, le curve dei nasi, la sinuosi-
tà delle bocche, le guance, risucchiate o cascanti, o carnose
o rubizze, gli zigomi sporgenti o piatti, coi pomelli accesi
oppure esangui, le forme delle orecchie, quelle espressioni,
quel sorriso, quel tic, un modo di corrugare la fronte, di
sporgere le labbra, di spingere il mento in fuori o ripiegarlo
cardinaliziamente sul collo.
Centinaia, migliala di volti, forse, che sono valsi a interpretare
altrettante tipologie, psicologie, altrettante storie che
solo il viso umano sa narrare con tanta inesauribile combinatoria
di linee, forme, volumi, giochi cromatici, incarnati, coloriti
diversi, diverse geometrie e fughe prospettiche, infinite,
affascinanti letture.
Ci ha accomunato questo stesso incantesimo, questo sortilegio
caleidoscopico di facce, questa stregonesca malìa di fissare
in qualche modo un temperamento, una identità, una vita. E'
un'usurpazione la nostra che può presentare aspetti anche
vagamenti persecutori, con l'imprevedibile, intempestiva invadenza
di presenze ipnagogi che, fantasmi psichici che richiedono
udienza a tua insaputa, affacciandosi, non richiesti e inopportuni,
dalle zone più occulte della memoria visiva.
Da anni, per esempio, io sono perseguitato da una faccetta,
che non ricordo più in quale film avrebbe dovuto apparire;
non la scelsi allora, e la fotografia ogni tanto risbucava
tra le migliala di altre che ho nel mio archivio. Capitò anche
che un giorno la facessi cercare all'indirizzo e al numero
telefonico che c'era scritto dietro la foto. "Ma è morto già
da due anni!" mi disse l'aiuto dopo qualche telefonata. È
passato del tempo da quel giorno, ho fatto molti altri film,
eppure quel tipetto un po' calvo, le orecchie a sventola,
il mento leggermente spostato, all'improv- viso emerge ancora
nel buio della mia immaginazio- ne, e lustro, lucente, stereoscopico,
mi fissa con i suoi occhietti pallidi in un gran silenzio
come a chiedermi: "Beh! E quella particina?"
Ma forse Rinaldo non vive queste invasioni, perché l'uso che
ha fatto delle facce, l'uso pittorico, ritrattistico, quella
specie di trasfusione alchemica che continua a compiere nei
suoi quadri, il trasferire i connotati, i sorrisi, gli sguardi,
gli atteggiamenti sugli specchi bianchi delle sue tele, dove
vengono via via a ricomporsi immagini incorporee e insieme
materiali, impressioni di luce in forma umana, non hanno mai,
ne hanno mai avuto carattere d'abuso, la mancanza di pietà
della sopraffazione, la forzatura del giudizio sogghignante,
della rivelazione punitiva.
Rinaldo è riuscito sempre a trattenersi al di qua, è riuscito
in qualche modo a stabilire un armistizio con la propria supremazia
d'artista, per mitezza di carattere, bonarietà e grazia d'ispirazione.
Tutte le tele di Rinaldo, tutti i suoi ritratti, conservano
qualcosa del riflesso argentato dello specchio come avessero
assorbito la luce da un pianeta ascendente o dalle pareti
segrete di un tabernacolo in cui fossero state riposte a decantare
per lungo tempo.
Fra chi guarda e il soggetto guardato, appare, si rivela questa
luce remota, lunare, la luce di un incantamento, di cui l'immobilità
viva, delle persone ritratte ripropone la propria impenetrabile
vicenda. Rinaldo ha partecipato come pittore a quasi tutti
i miei film, una collaborazione che va avanti ormai da cinquant'anni;
in «Roma», nella sequenza del defilé ecclesiastico, ha creato
un'intera galleria di ritratti di personaggi prelatizi, eterei
e incombenti, fantasmatici e densi come essenze di incenso
o come misterio- si cerimonieri e guardiani di una Chiesa
stanca ma indistruttibile.
Averlo accanto nei miei film, sapere che nel suo studio, o
in qualche provvisorio stanzone di Cinecittà, fa il suo lavoro,
dipinge i quadri e i ritratti che gli ho commissionato, mi
comunica lo stesso conforto di una volta, quel caldo sentimento
di un'amicizia, di una compagnia che mi rassicura, mi fa sentire
più giovane; come quando nei ristoranti, sulle spiagge, o
in case sconosciute, intervenendo in tempo, metteva rimeldio
con quattro tocchi sicuri a quei disastrati conati di ritratto
che io, accanto a lui, mi get- tavo sfacciatamente a promettere
e disinvoltamente ad eseguire, rischiando di screditare per
sempre la cre- dibilità della nostra associazione artistica.
Portato a deformare, a dilatare, ad interpretare buf- fonescamente
o grottescamente i tratti di chi mi sta davanti, forse io
non ero adatto a quella fedeltà naturalistica che pure è indispensabile
in ogni vero ritrattista, qualunque sia la sua grandezza.
Rinaldo ha invece sempre mantenuto uno sguardo amico, non
nel senso di voler compiacere il committente o edulcorare
il soggetto, all'opposto, proprio per una sua intima necessità
pittorica che è quella di essere amico dei volti, dei sorrisi,
della malinconia, dei tratta della peculiarità di chi gli
sta davanti e che tramite il suo pennello chiede di andare
ad abitare sulla tela.
Come me, Rinaldo guarda il mondo dalla parte dei visi, è votato
all'ossessione delle facce; ma le sue ossessioni miti e un
po' fatate, sono dotate di una grazia che non conosce rivalse
e soprattutto trattenute dalla mano ferma di un vero indiscutibile
talento. Basta sfogliare questo volume che riproduce i suoi
lavori, i ritratti e i numerosi autoritratti che Rinaldo ha
scelto di far convivere in queste pagine: si avverte con gioia
e emozione di essere stati invitati a condividere un segreto,
di essere stati ammessi ad un'indiscrezione sensuale e salutare.
Certo, potrei chiacchierare ancora un po', dire per esempio
quanto mi piace il mio ritratto, io che di solito lascio nella
disperazione i fotografi censurando, o peggio, stracciando
implacabilmente tutte le foto che mi fanno sul set, perché
non mi piacciono mai, o meglio sono io che non mi piaccio:
mi vedo sempre goffo, pelato, gonfio, sgraziato; e la faccia?
Come ci si può fidare di uno che ha una faccia così?
Sfuggente, ambigua, non si sa mai cosa pensa, ne dove sia,
bambinesca, losca, non trovo una definizione che mi conforti
un po'. Vi ricordate Febo Mari? È stato forse il primo attore
che ho visto quando ero bambino.
Come mi sarebbe piaciuto avere una faccia così. Oppure quella
di Edgar Allan Poe.
Sì è vero, il ritratto del mio grande amico pittore non c'entra
niente ne con il romantico attore della mia infanzia, e ancor
meno con lo spettrale, affascinante, bellissimo volto del
poeta maledetto.
Però posso guardarlo e guardarmi con simpatia e solidarietà.
Grazie, Rinaldo, buon lavoro e buona fortuna.
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