Da
più di un secolo, il genere aureo per eccellenza, il ritratto,
era riserva esclusiva della fotografìa, alla quale spettava
anche il merito di aver trasformato un privilegio regale in
una comune e quotidiana azione cui era demandato il compito
di protrarre un ricordo, una testimonianza, un documento dell'individuo.
In
un'epoca in cui la ritrattistica sembrava dunque una desinenza
del passato, delle epoche in cui i generi artistici avevano
la loro gerarchla, il gusto per l'effìge, per la celebrazione
narcisistica del proprio essere e del proprio status, sembra
ora subire una nuova rinascita.
Il
ritratto, da divulgazione meccanica e riproducibile, ritorna,
discreto, elitario, coltivato nella riservatezza dell'atelier,
in un complice e intrigante colloquio tra l'autore e il suo
modello.
Il
ritratto ha infatti il compito di comunicare, al di là dell'involucro
esterno, cosa si cela dietro l'apparenza, la vera natura del
personaggio, e per questo è necessario che si stabilisca un
contatto, una sotterranea corrente di energia, un sottile
gusto della spoliazione.
Rinaldo
Gèleng è da più di trent'anni un maestro nell'indagare quelle
che potremmo definire le «abitudini dello spirito».
Nato a Roma nel 1920, rimasto orfano, trascorre la sua prima
giovinezza nell'Istituto romano S. Michele dove apprende un
«mestiere».
In questa scuola, dove si preparavano i maestri artigiani,
frequenta un corso di pittura e disegno, tenuto da artisti:
Morbiducci, autore del Monumento al Bersagliere di
Porta Pia, Villani, ai quali dovrà in seguito la prima
iniziale spinta per la sua vocazione.
E'
alla redazione del Marc'Aurelio (settimanale umoristico dell'epoca)
che nel 1939 incontra per la prima volta Federico Fellini,
collaboratore per le battute satiriche, ma versatile e pungente
anche nelle caricature.
Nasce
un'amicizia che dura tutt'ora. E proprio con Fellini che arrotondava
la giornata realizzando le caricature dei frequentatori dei
Caffè alla moda e i ritratti tracciati nei camerini delle
vedettes del varietà di allora: Rascel, Macario, Wanda Osiris,
Rudi Clair, Dante Maggio, Nino Tarante, ecc.
Esposti
accanto al cartellone del teatro, questi rapidi e acuti segni,
divengono prima una consuetudine, poi una moda che lo renderà
noto a Roma.
Comincia
a delinearsi in questo momento della sua vita un divario,
una contesa fra la sua anima di illustratore, la cui ironia
e destrezza cominciavano a dargli delle soddisfazioni e quindi
la soluzione pratica dei suoi problemi esistenziali, e la
vocazione del pittore, del ritrattista.
Nel
1950 è a Parigi, dove si fermerà fino al 1959, occupando l'incarico
di Direttore artistico dell' «Opera Mundi» riuscendo a realizzare
in breve tempo una vera e propria scuola di illustratori e
disegnatori, sotto la sua guida si formeranno infatti numerosi
operatori di qualità. Come per un destino segnato dalla sorte
è proprio a Parigi che dopo molti anni ritrova Federico Fellini,
nella capitale francese in occasione della prima de «La Strada».
Nonostante il successo ottenuto nel campo dell'illustrazione,
la pittura e la ritrattistica costituiscono la sua più autentica
vocazione.
Durante
gli anni parigini, la frequentazione del Louvre, del Jeu de
Paume, la ritrattistica di Rembrandt, suo maestro ideale,
dove l'immagine fisionomica è spinta a fondo, ma in funzione
prevalentemente espressiva, la scoperta della «genialità pura»
di Van Gogh, la visione analitica degli Impressionisti, eserciteranno
su di lui un notevole fascino.
Alcuni
ritratti eseguiti a Parigi e quelli realizzati a Roma, subito
dopo il suo ritorno, risentono della pennellata corposa dell'Ecole
parisienne, della fusione compositiva di Soutine, ma anche
dell'analiticità espressiva di Modigliani.
Proprio
il suo amico Federico Fellini gli commissiona, quasi per una
sfida il ritratto, intuendo questa sua doppia natura.
Il
ritratto di Fellini del 1964, i ritratti di alcuni amici gli
danno modo di intessere un partecipe racconto decantato dal
colore.
E proprio in queste tele che si evidenzia il suo liberarsi
dal disegno dell'illustratore a favore dell'intensità cromatica
in un narrare fresco ma intenso, sincero e in consonanza con
il modello.
La corposità della pennellata o l'uso della spatola che caratterizza
i ritratti di questi anni, rende con la riduzione del mezzo
espressivo, l'indagine del modello colto nella naturalezza
di una istantanea.
Tornato
in Italia, nel 1959 lo troviamo collaboratore alle riviste
del Gruppo Mondadori, realizzando la copertina di Arianna
e illustrazioni per «Grazia» 1959-1962.
Attraverso
gli sguardi di ragazzine senza trucco e lentiginose, diffonde
un'immagine femminile «acqua e sapone», un'idea di freschezza
e gioventù maliziosamente ingenua, instaurando una moda.
Tra
le immagini pubblicitarie, quella della Birra Whurer, del
1960, costituirà un riuscitissimo precedente, tuttora imitato,
nell'associazione di una bionda capigliatura al colore della
birra.
Oltre
ad essersi dedicato per anni alla pubblicità cinematografica,
un aspetto inconsueto del suo lavoro si può cogliere nelle
realizzazioni nate dal suo sodalizio con Fellini.
Gèleng
è l'autore infatti di numerosi quadri nelle ambientazioni
felliniane: dalle rievocazioni della Roma antica del film
Roma, (insieme ai figli Antonello e Giuliano), alla quadreria
del Casanova, agli ambienti di Amarcord.
Nel
1971 lascia l'incarico di capo ufficio stampa della Warner
Brother's, per ritrovare il pittore, il ritrattista, attività
alla quale in questi ultimi anni si dedica quasi esclusivamente.
Nel
ritratto l'artista è impegnato costantemente nel trovare una
unificazione psicologica tra la gamma cromatica e il carattere
del modello.
Nella
sua galleria di ritratti sfilano personaggi famosi e non,
trovando ciascuno l'ambientazione più adatta e intonata alla
propria personalità e al proprio carattere.
Nel
Salon del 1846, Baudelaire scriveva a proposito del ritratto
storico, cioè realistico, che esso «consiste nel rendere fedelmente,
severamente, minuziosamente, il contorno e la modellatura
del modello, il che non esclude l'idealizzazione, la quale
consisterà per i veristi intelligenti, nello scegliere la
posizione più caratteristica, quella che meglio esprime le
attitudini dello spirito, inoltre nel saper dare ad ogni dettaglio
importante l'esagerazione ragionevole, nel mettere in luce
quanto è naturalmente saliente, accentuato e principale e
tralasciare o fondere nell'insieme tutto quello che è insignificante
o che risulta da una degradazione accidentale».
Nell'elegante ritratto di Gianni Agnelli, del 1985, emerge
l'espressione dell'esperienza e della tradizione di una dinastia.
Le caratteristiche sono quelle del ritratto del gentiluomo,
l'espressione della classe nell'austerità dell'abito scuro
come nell'ideale signorile dei ritratti del Bronzino. L'«autoritratto»
permette, nella serie numerosa l'analisi sullo sdoppiamento
dell'autore, il molteplice sfaccettarsi della visione e dello
stato d'animo. Questa visione diviene il banco di prova della
sperimentazione, come la cavia nel laboratorio scientifico.
Questo
auto-osservarsi ci restituisce le varianti del possibile convergere
dell'uomo e dell'artista come in un gioco di specchi in cui
è sempre un rischio l'individuazione dell'immagine reale.
Attraverso
i suoi autoritratti, Gèleng non osserva che il lato fisico
di se stesso, l'indagine del profondo, il moto dei sentimenti
che lo animano lo rintracciamo in tutto il suo lavoro, nell'interpretazione
che esso stesso ci offre attraverso i suoi modelli.
Giuditta
Villa
|
|