SCULTURE CHE PARLANO
Le mie voci nella bibliografia di Ceroli (a cominciare da
quella che l'apre, del 1964) saranno una ventina, forse più,
eppure ogni volta che scrivo di lui l'opera che ho di fronte
non solo è diversa, ma è una sorpresa che rinnova l'interesse
e il piacere, che elettrizza la penna e la spinge a muoversi
sulla carta: per dire, poverina, quel che sa dire, ma sempre
con sincera e rinnovata ammirazione.
Ceroli non poteva scegliere un soggetto più congeniale al
suo acuto talento, e non solo perché Pinocchio rinasce così
nel legno dopo essere nato nel legno, ma perché pochi eroi
della nostra letteratura sono più prettamente italiani della
sbarazzina creatura di Geppetto e poche invenzioni della nostra
scultura risultano più originali e meno ripetitive.
Dico poche per dire quasi nessuna. Mi tornano a mente le
giuste parole di Cesare Brandi: "L'importante è di
non ripetere, di non soggiacere, di non succhiare la ruota
del primo in classifica.
Ceroli ha fatto una fuga, per continuare in gergo ciclistico:
è di nuovo in testa, ed è quanto di più italiano (sottolineo
la parola e chiaramente in senso strutturale e non nazionalistico)
ci sia oggi in Italia.
Fra giovani, ben inteso". Di decenni ne sono passati, ma
non cambierei una parola, salvo cassare quel "fra giovani"
(penso che Brandi volesse evitare, con tale aggiunta, un'irriverenza
verso il suo amico Manzù).
Ceroli, in realtà, è sempre rimasto nel gruppo di testa; in
altre parole, continua oggi ad essere tra i due o tre maggiori
del nostro paese, nella scultura, e volendo allargare al mondo,
mi limiterei a raddoppiare il numero. E' il solo, però, a
sottrarsi del tutto a quel "peso solenne" che della scultura
è proprio e rischia a volte di renderla incompatibile con
i gusti di chi (non il sottoscritto) concepisce la modernità
unicamente come affrancamento, totale, dal passato.
Non il sottoscritto, ho voluto precisare, e tuttavia apprezzo
anch'io, moltissimo, tale capacità d'affrancamento, quando
non è a prezzo delle qualità, della piena credibilità come
arte. Ed è sempre stato il caso di Ceroli.
Con Pinocchio egli aggiunge una saporita grazia di racconto
e di burla, che non è propriamente ironia, ma è rivivere,
far rivivere, quell'arguzia e sapienza di Collodi nel coniugare
lo stupore infantile della favola con la piana, didascalica
maestria del racconto, nel tratteggiare l'incontenibile vivacità
del ragazzo burattino e il suo incontrarsi con situazioni
allegre, o inattese, o sconsolanti.
Così il Pinocchio di Ceroli siede, cammina, si inginocchia,
si gira, si piega, si agita e con la pulita, diritta e ben
staccata geometria dei suoi agitati movimenti parla, esprime
stati d'animo di spensieratezza, impudenza, implorazione,
disperazione, riflessione, abbattimento; e sorpresa e meraviglia
di fronte all'improvviso, iperbolico allungarsi del proprio
naso.
Parla con le sue linee spezzate, con i verdi i grigi gli
azzurri degli indumenti, i rossi delle lunghe orecchie d'asino
o quelli aguzzi dei timpani che sormontano il volto cubico,
cavo, che è il teatrino stesso delle sue gesta, parla con
l'eloquente mimica delle braccia e delle gambe in un gioco
armonico, astratto di piani e di colori, gioia degli occhi
e continuo variare del racconto.
Non vedo chi altri avrebbe saputo esprimere tutto ciò con
la finezza (straordinaria) e l'inventività di Ceroli.
Maurizio Calvesi
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